Il ginepro, simbolo del Cristo
Fino all'inizio del 900 nelle campagne emiliane si usava bruciare un ramo di ginepro la sera di Natale, di san Silvestro e dell'Epifania. Il suo carbone, come quello del ceppo, veniva poi impiegato durante l'anno in tanti rimedi superstiziosi. Di quelle usanze Amadeo costa offriva un'interpretazione nel Curioso discorso intorno alla Cerimonia del Ginepro, aggiuntavi la dichiarazione del metter Ceppo e della Mancia solita a darsi nel tempo di Natale, già citato a proposito del ceppo natalizio. Siccome molti da Plinio a Mattioli, da Discoroide a Durante, avevano sostenuto che il profumo del ginepro scacciava le serpi, mentre il succo delle foglie e delle bacche guariva dai morsi delle vipere e di altri animali velenosi, l'immaginifico bolognese, paragonando i peccati a simboliche serpi e il ginepro alla Croce del Cristo scriveva: "Però da questo siamo avvertiti che in qualunque tempo ci troviamo mortificati da questi serpenti velenosi dé peccati, non tardiamo a correre al Ginepro, facendo profumi per mezzo della confessione, prendendo le foglie di esso, che al toccare sono pungenti, significandoci la compunzione (atteggiamento critico nei confronti del proprio operato, che si traduce in un'espressione silenziosamente concentrata o imbarazzata, talvolta con una sfumatura di ipocrisia) del cuore e le mortificazioni del corpo, gustando il succo delle bacche così amare al gusto, piangendo le colpe commesse, e dicendo con Giobbe: loquar in amaritudine, che a questo modo resteremo liberi e risanati affatto".
E come un bagno nella "decozione" (il fare i "decotti") del suo legno avrebbe giovato ai gottosi, così il bagno spirituale del Ginepro avrebbe liberato dall'accidia. Quanto alla sua cenere, era simbolo di Umiltà:" Caviamo documento morale che noi dobbiamo accenderci del fuoco della carità verso Dio e verso il prossimo ricoprendoci con la cenere del Ginepro, che dinota l'umiltà umiliandoci nel cospetto di Dio e degli uomini, che a questo modo si accenderà da noi un fuoco inestinguibile".
Addentrandoci in questa sintassi, talvolta fantasiosa come le sue immagini, incontriamo le bacche del ginepro che sono violacee come i paramenti sacri nei tempi della Quaresima e dell?avvento: "nel che" commenta il Costa "siamo esortati a far frutti di penitenza e ad udir quella voce di Giovanni che grida nel deserto".
Il suo legno, spiegava, non soltanto è inattaccabile dai tarli, come scrive Virgilio ("addam et juniperos carie impenetrabile robur"), ma dura centinaia di anni. Secondo Plinio, anzi, esiste una specie di Ginepro capace di crescere a tale altezza che si può usarne il tronco per farne travi per le navi. Il naturalista latino afferma che "in Spagna, a sagunto, il tempio di Diana, arrivata per mare da Zacinto insieme con i fondatori della città duecento anni prima della distruzione di Troia, secondo quando afferma Bocco (è situato ai piedi della città, e Annibale, colto da scrupoli religiosi, lo lasciò intatto) ha travi di ginepro che resistono ancora." Sono queste sue qualità a farne un simbolo della Croce: "Noi potiamo imparar da questo che dobiamo prendere il legno del Ginepro, cioè la croce di Cristo redentore, facendone travi grandi nel tempio dell'Anima nostra, perchè Templum Dei estis vos, dice l'apostolo, e l'arbore della Croce è così grande che la sommità di esso tocca il cielo, come disse il Cristo: ego, cum exaltatus fuero, omnia traham ad me ipsum".
Siccome la scorza del ginepro bruciata e ridotta in cenere e mescolata con acqua gioverebbe, a guisa di unguento, alla lebbra e alla rogna, potrebbe simboleggiare "la cognizione di noi stessi, la quale ci viene ridotta a memoria il primo giorno di Quaresima da Santa Chiesa nella Cenere postaci sul capo con le parole aggiunte: Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris".
Concludendo il suo immaginifico Discorso, il Costa sosteneva, quasi volesse evitare sospetti negli occhiuti censori ecclesiastici dell'epoca, che l'usanza di bruciare il ginepro non era certo una pratica pagana, e soggiungeva:" Tutti dobbiamo mostrarci pronti ad accendere e abbrugiare il Ginepro e nel gettarlo sul fuoco considararemo che essendo arbore odorifero, nell'abbrugiarsi rende odore, e il suo fumo sale in alte, nel qual atto considararemo che le nostre orazioni deono ascendere e arrivare all'orecchio di Dio( che non si deve lasciare di dire almeno divotamente un Pater e un'Ave Maria, mentre lo poniamo sul fuoco) acciò che ivi gionte ci impetrino da Sua Divina Maestà una purità di mente e di core e grazia d'emandarci presupponendo che ogni buono e timorato cristiano s'abbia a confessare Natale per rinascere col nascente Salvatore a vita più lodevole e migliore".
E come un bagno nella "decozione" (il fare i "decotti") del suo legno avrebbe giovato ai gottosi, così il bagno spirituale del Ginepro avrebbe liberato dall'accidia. Quanto alla sua cenere, era simbolo di Umiltà:" Caviamo documento morale che noi dobbiamo accenderci del fuoco della carità verso Dio e verso il prossimo ricoprendoci con la cenere del Ginepro, che dinota l'umiltà umiliandoci nel cospetto di Dio e degli uomini, che a questo modo si accenderà da noi un fuoco inestinguibile".
Addentrandoci in questa sintassi, talvolta fantasiosa come le sue immagini, incontriamo le bacche del ginepro che sono violacee come i paramenti sacri nei tempi della Quaresima e dell?avvento: "nel che" commenta il Costa "siamo esortati a far frutti di penitenza e ad udir quella voce di Giovanni che grida nel deserto".
Il suo legno, spiegava, non soltanto è inattaccabile dai tarli, come scrive Virgilio ("addam et juniperos carie impenetrabile robur"), ma dura centinaia di anni. Secondo Plinio, anzi, esiste una specie di Ginepro capace di crescere a tale altezza che si può usarne il tronco per farne travi per le navi. Il naturalista latino afferma che "in Spagna, a sagunto, il tempio di Diana, arrivata per mare da Zacinto insieme con i fondatori della città duecento anni prima della distruzione di Troia, secondo quando afferma Bocco (è situato ai piedi della città, e Annibale, colto da scrupoli religiosi, lo lasciò intatto) ha travi di ginepro che resistono ancora." Sono queste sue qualità a farne un simbolo della Croce: "Noi potiamo imparar da questo che dobiamo prendere il legno del Ginepro, cioè la croce di Cristo redentore, facendone travi grandi nel tempio dell'Anima nostra, perchè Templum Dei estis vos, dice l'apostolo, e l'arbore della Croce è così grande che la sommità di esso tocca il cielo, come disse il Cristo: ego, cum exaltatus fuero, omnia traham ad me ipsum".
Siccome la scorza del ginepro bruciata e ridotta in cenere e mescolata con acqua gioverebbe, a guisa di unguento, alla lebbra e alla rogna, potrebbe simboleggiare "la cognizione di noi stessi, la quale ci viene ridotta a memoria il primo giorno di Quaresima da Santa Chiesa nella Cenere postaci sul capo con le parole aggiunte: Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris".
Concludendo il suo immaginifico Discorso, il Costa sosteneva, quasi volesse evitare sospetti negli occhiuti censori ecclesiastici dell'epoca, che l'usanza di bruciare il ginepro non era certo una pratica pagana, e soggiungeva:" Tutti dobbiamo mostrarci pronti ad accendere e abbrugiare il Ginepro e nel gettarlo sul fuoco considararemo che essendo arbore odorifero, nell'abbrugiarsi rende odore, e il suo fumo sale in alte, nel qual atto considararemo che le nostre orazioni deono ascendere e arrivare all'orecchio di Dio( che non si deve lasciare di dire almeno divotamente un Pater e un'Ave Maria, mentre lo poniamo sul fuoco) acciò che ivi gionte ci impetrino da Sua Divina Maestà una purità di mente e di core e grazia d'emandarci presupponendo che ogni buono e timorato cristiano s'abbia a confessare Natale per rinascere col nascente Salvatore a vita più lodevole e migliore".
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