lunedì 16 novembre 2009
venerdì 25 settembre 2009
Tasso (Taxus baccata)
L'albero che uccise il padre di Amleto: il tasso
dea degli inferi, si sacrificavano a Roma tori neri inghirlandati con foglie di tasso (Taxus baccata) che le era consacrato. Il legame di quest'albero con gli inferi è testimoniato anche da Ovidio secondo il quale la strada verso il mondo dei morti era ombreggiato da tali piante.
Nel Medioevo si favoleggiava che la dea lunare apparisse a streghe e maghi con torce di tasso in mano. L'eco di questa credenza si ritrova nel Macbeth di Shakespeare: le tre streghe preparano la diabolica mistura nel calderone di Ecate e fra i tanti ingredienti vi è anche "un rametto di tasso reciso all'eclissi di luna". Anche le Erinni (http://it.wikipedia.org/wiki/Erinni) lo predileggevano, terrorizzando con fiaccole del suo legno i mortali che intendevano perseguitare.
A Eleusi (http://it.wikipedia.org/wiki/Eleusi) i sacerdoti si cingevano di corone di tasso che avevano un duplice simbolismo, di morte ma anche d'immortalità a causa delle foglie sempreverdi. Del resto abbiamo già ritrovato questa plurivalenza simbolica in altre piante sempreverdi, dal cipresso al pino. Probabilmente l'ha evocata anche la sua longevità: vi sono infatti tassi, come quelli del cimitero di La Haye-de-Routot (i due tassi del cimitero hanno uno 14 e l'altro 15 metri di circonferenza, dal che si può presumere un'età tra i 1300 e i 1500 anni) che hanno una veneranda età. In Inghilterra un tasso del Derbyshire avrebbe 2100 anni e quello di Fortingall, in Scozia, supererebbe i 2000.
Nel druidismo era considerato un'albero sacro, tanto che molti oggetti di culto erano intagliati nel suo legno, dal bastone dei Druidi alle tavolette di esecrazione,a diversi simulacri. Secondo una credenza dei Cimri
gli antichi abitanti di lingua celtica del Galles e dello Strathclyde, il tasso sarebbe il più vecchio essere vivente, potendo raggiungere i 19.683 anni. Da terminare
lunedì 21 settembre 2009
Impatiens
La Impatiens ovvero non mi toccare
Qualche anno fa, quando mia moglie ha piantato per la prima volta nel nostro giardinetto la Impatiens noli-me-tangere, una delle 700 specie del genere Impatiens, ho capito il motivo di tale soprannome. Un giorno, osservandone attentamente il frutto, che assomiglia ad una pera allungata, inavvertitamente l'ho sfiorato. Non lo sapevo che fosse deiscente e non tollerasse di essere toccato, pur con delicatezza. Quasi fosse "spazientito", ha aperto i suoi lati di scatto che, arrotolandosi, hanno proiettato verso l'alto i semi che mi hanno colpito in pieno viso. Così lo descriveva Erasmus Darwin negli Amori delle piante, evocando in quei semi espulsi violentemente i figli che Medea, secondo una leggenda estranea al mito, avrebbe lanciato dall'alto del carro dorato, sul quale si era involata, per punire Giasone risposatosi con la figlia del re di Corinto:
Continua
Continua
martedì 8 settembre 2009
sabato 5 settembre 2009
Rosmarino (rosmarinus officinalis)
La rugiada del mare: il rosmarino
Il rosmarino non è soltanto una delle erbe principali della festa del Precursore http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.pax?mostra_id=13041
usata insieme con l'iperico, la lavanda e la ruta per la cosiddetta "acqua di San Giovanni", ma una pianta che fin dall'antichità ha ispirato leggende, tradizioni e medicamenti miracolosi. Il suo nome latino, rosmarinus , lo apparenta strettamente al mare: secondo alcuni etimologi deriverebbe da ros , rugiada, e maris, del mare. Secondo altri da rosa e maris, e significherebbe "rosa del mare". Ma vi è anche chi sostiene che ros derivi da rhus, arbusto, arboscello: sicchè rosmarino significherebbe "arbusto del mare". In ogni modo il suo fiore azzurro rammenta proprio il colore dell'acqua marina. Nel linguaggio amoroso dei fiori evoca un cuore felice, e se lo si regala trasmette il messaggio: "Sono felice quando ti vedo".
Secondo la tradizione ermetica è la pianta del terzo decano dei Gemelli e presiede alle mani e ai loro mali. Per questo motivo nei riti di purificazione le abluzioni manuali con soluzioni al rosmarino erano la condizione per ogni guarigione. Lo si usava anche nelle cerimonie religiose in luogo dell'incenso.
Per gli Egizi era simbolo di immortalità, tant'è vero che usavano metterne una manciata in mano al defunto per facilitarne il viaggio nell'oltretomba. I Romani, invece, incoronavano con rosmarino le statuette dei Lari, geni familiari della casa.
L'uso funerario dell'erba si diffuse in gran parte del mondo mediterraneo ma anche nel Nord, tant'è vero che una volta nell'Europa settentrionale si accompagnavano i morti al cimitero con un suo rametto in mano, mentre da noi si componevano le corone funerarie con alloro, mirto e rosmarino. Questa consuetudine è testimoniata anche da un proverbio siciliano:
Cc'è tant'ervi all'orti
E cc'è la rosmarina pi li morti!
La leggenda della principessa e del rosmarino
In Sicilia si narra una leggenda apparentemente bizzarra e oscura. Una volta una regina sterile stava passeggiando nel giardino quando, vedendo una rigogliosa pianta di rosmarino, fu invasa da un'invidia irrefrenabile per i suoi numerosi rametti che le evocavano il simbolo della fecondità. Poco dopo si scoprì incinta, e al termine della gravidanza partorì una pianta di rosmarino che lei, intenerita, dopo averla battezzata Rosmarina, annaffiava quattro volte al giorno col proprio latte. Ma durante una visita il re di Spagna, suo nipote, rubò la pianticella e la sistemò in giardino alimentandola con latte di capra.
mercoledì 26 agosto 2009
domenica 23 agosto 2009
Faggio (Fagus sylvatica)
foto Scivola
Nomi dialettali: Faj, Faggiu, Faghe, Fave, Fagge, Fagu.
Dati scientifici.
Morfologia
Albero alto fino a 40 metri, longevo, a tronco dritto e cilindrico, con rami grossi e nodosi che formano una chioma conica-ovoidale, densa; nelle radure i rami sono suborizzontali e poi ascendenti si da formare una chioma molto ampia. La corteccia è liscia, sottile, di colore grigio-argenteo, spesso ricoperto di licheni. Le gemme sono affusolate, lunghe fino a tre cm, acute, bruno chiare
venerdì 21 agosto 2009
Il sandalo del mondo: l'orchidea
C ' era una volta, narra una leggenda dell'Epiro, un giovinetto bellissimo di nome Orchide al quale, all'inizio dell'adolescenza, erano spuntati due opulenti seni femminili; e a mano a mano che egli cresceva il corpo diventava così sinuoso e morbido da sfuggire a ogni classificazione sessuale. Orchide non capiva più se fosse un maschio o una femmina, o entrambi insieme; e ne soffriva perchè maschi e femmine lo sfuggivano trovandolo tanto diverso da loro, tanto ambiguo: un ermafrodito. La sua ambiguità si rifletteva anche nel carattere: talvota timido e schivo come una ninfa, talaltra lussurioso come il dio Pan.
Un giorno, disperato, si gettò da una rupe sfracellandosi su un prato, dove per incanto spuntarono dal suo sangue tanti fiori, l'uno diverso dall'altro ma simili nella fastosa e bizzarra sensualità. Ebbero così il nome di orchidee, ossia fiori di Orchide. Vi erano quelle che come l'Orchis simia ( http://luirig.altervista.org/schedeit/fo/orchis_simia.htm ), che sembravano nude e impudiche scimmiette; altre, come l'orchidea odorosa ( http://www.myristica.it/jul-2001/vaniglia.html ), raffiguravano ciò che vi è di più celato nella femminilità; altre ancora alludevano esplicitamente alla mascolinità. Per tale motivo, forse, gli efebi ateniesi, vestiti di bianco, cantavano lodi agli dei con la fronte incoronata di orchidee.
I Greci la chiamavano kosmosàndalon, sandalo del mondo, per il labello rigonfio che si trova in molte specie spontanee nell'area mediterranea e assomiglia alla punta di una scarpetta ( la seconda foto a partire da sinistra in alto) .
Ma la bellezza del fiore ha evocato anche il simbolo dell'Armonia, e perfino l'emblema della Perfezione spirituale, perchè la bellezza carnale e terrena, come ha insegnato Platone, non è se non una materializzazione di quella invisibile ai nostri occhi di mortali: bellezza che, come il corpo androgino di Orchide, trascende ogni genere, essendo maschile e femminile insieme.
Un giorno, disperato, si gettò da una rupe sfracellandosi su un prato, dove per incanto spuntarono dal suo sangue tanti fiori, l'uno diverso dall'altro ma simili nella fastosa e bizzarra sensualità. Ebbero così il nome di orchidee, ossia fiori di Orchide. Vi erano quelle che come l'Orchis simia ( http://luirig.altervista.org/schedeit/fo/orchis_simia.htm ), che sembravano nude e impudiche scimmiette; altre, come l'orchidea odorosa ( http://www.myristica.it/jul-2001/vaniglia.html ), raffiguravano ciò che vi è di più celato nella femminilità; altre ancora alludevano esplicitamente alla mascolinità. Per tale motivo, forse, gli efebi ateniesi, vestiti di bianco, cantavano lodi agli dei con la fronte incoronata di orchidee.
I Greci la chiamavano kosmosàndalon, sandalo del mondo, per il labello rigonfio che si trova in molte specie spontanee nell'area mediterranea e assomiglia alla punta di una scarpetta ( la seconda foto a partire da sinistra in alto) .
Ma la bellezza del fiore ha evocato anche il simbolo dell'Armonia, e perfino l'emblema della Perfezione spirituale, perchè la bellezza carnale e terrena, come ha insegnato Platone, non è se non una materializzazione di quella invisibile ai nostri occhi di mortali: bellezza che, come il corpo androgino di Orchide, trascende ogni genere, essendo maschile e femminile insieme.
Alfredo Cattabiani - Florario -
Vespa su Santoreggia [Vespula vulgaris (?)] e vespula germanica
La vespa e le tenebre
La vespa (Vespa, genere delle varie specie di insetti imenotteri aculeati della famiglia Vespidae) ha ispirato simboli opposti all'ape perchè non produce né miele né cera e la sua arnia, tranne quella della cartonia, è costruita sotto terra, in quelle tenebre che simbolicamente indicano il disordine, la confusione, il male: tant'è vero che si dice «cadere in un vespaio» quando si affronta un ambiente ostile, dal quale si ricevono danni, sevizie, soprusi, ferite.
Nella tradizione cristiana il vespaio ha simboleggiato anche che le sette eretiche che anticamente, quando la Chiesa poteva usare contro di loro il potere temporale, si celavano nell'ombra.
Nel mondo classico invece il simbolismo della vespa non era cos' univoco sebbene prevalesse quello negativo. Nel Libro dei sogni Artemidoro sosteneva che preannunciasse uomini perversi e crudeli. A sua volta Aristofane paragonava i vecchi giudici ateniesi alle vespe, alludendo alla loro ferocia e al potere sovrano e illimitato che esercitavano:«Ecco subito è teso il pungiglione acuto, la nostra arma» proclama il coro nella commedia Le vespe (http://it.wikipedia.org/wiki/Le_vespe_%28Aristofane%29). E soggiunge in un altro in un altro passo: "Se qualcuno di voi spettatori nel vederci si meraviglia che abbiamo la vita sottile come quella di una vespa e domanda che cosa significa il pungiglione, glielo spiegheremo facilmente anche se prima non ne sapeva nulla. Noi che portiamo questa appendice siami i soli veri Attici autoctoni (il termine autoctono indica l'appartenenza di qualcosa o di qualcuno ad un luogo)
, razza arditissima che ha salvato la città dalla guerra, quando il barbaro la incendiò e soffocò nel fumo sperando di distruggere a forza i nostri vespai. [...] Sicché presso i barbari anche oggi si suole dire che non c'è nulla al mondo più coraggioso di una vespa attica".
Nella metereologia popolare si sosteneva che quando apparivano molte vespe durante l'autunno, l'inverno successivo sarebbe stato rigido.
In una favola di Fedro, A proposito di quei favi, la vespa nei panni del giudice ha eccezionalmente una connotazione positiva, come immagine di saggezza e di equilibrio:
Le api fecero i favi, sulla quercia,
e i fuchi, buoni a nulla, si dicevano
proprietari dei favi.
Si finì in tribunale. Il giudice, una vespa,
che conosceva bene queste e quelli,
avanzò una proposta alle due parti:
"La taglia è affine, l'apparenza eguale:
è legittimo il dubbio intorno al fatto.
Ma sono scrupolosa e non vorrei
mai peccare di poca avvedutezza:
preparate le celle con la cera;
che dal gusto del miele e dalla buona
forma del favo l'evidenza mostri
chi costruì quelli di cui si discute".
I fuchi si opposero, accettarono le api.
Fu allora emessa la sentenza:
"Chi non sa fare i favi e chi li ha fatti
si vede, e alle api rendo il loro frutto"
Alfredo Cattabiani - Volario -
Nella tradizione cristiana il vespaio ha simboleggiato anche che le sette eretiche che anticamente, quando la Chiesa poteva usare contro di loro il potere temporale, si celavano nell'ombra.
Nel mondo classico invece il simbolismo della vespa non era cos' univoco sebbene prevalesse quello negativo. Nel Libro dei sogni Artemidoro sosteneva che preannunciasse uomini perversi e crudeli. A sua volta Aristofane paragonava i vecchi giudici ateniesi alle vespe, alludendo alla loro ferocia e al potere sovrano e illimitato che esercitavano:«Ecco subito è teso il pungiglione acuto, la nostra arma» proclama il coro nella commedia Le vespe (http://it.wikipedia.org/wiki/Le_vespe_%28Aristofane%29). E soggiunge in un altro in un altro passo: "Se qualcuno di voi spettatori nel vederci si meraviglia che abbiamo la vita sottile come quella di una vespa e domanda che cosa significa il pungiglione, glielo spiegheremo facilmente anche se prima non ne sapeva nulla. Noi che portiamo questa appendice siami i soli veri Attici autoctoni (il termine autoctono indica l'appartenenza di qualcosa o di qualcuno ad un luogo)
, razza arditissima che ha salvato la città dalla guerra, quando il barbaro la incendiò e soffocò nel fumo sperando di distruggere a forza i nostri vespai. [...] Sicché presso i barbari anche oggi si suole dire che non c'è nulla al mondo più coraggioso di una vespa attica".
Nella metereologia popolare si sosteneva che quando apparivano molte vespe durante l'autunno, l'inverno successivo sarebbe stato rigido.
In una favola di Fedro, A proposito di quei favi, la vespa nei panni del giudice ha eccezionalmente una connotazione positiva, come immagine di saggezza e di equilibrio:
Le api fecero i favi, sulla quercia,
e i fuchi, buoni a nulla, si dicevano
proprietari dei favi.
Si finì in tribunale. Il giudice, una vespa,
che conosceva bene queste e quelli,
avanzò una proposta alle due parti:
"La taglia è affine, l'apparenza eguale:
è legittimo il dubbio intorno al fatto.
Ma sono scrupolosa e non vorrei
mai peccare di poca avvedutezza:
preparate le celle con la cera;
che dal gusto del miele e dalla buona
forma del favo l'evidenza mostri
chi costruì quelli di cui si discute".
I fuchi si opposero, accettarono le api.
Fu allora emessa la sentenza:
"Chi non sa fare i favi e chi li ha fatti
si vede, e alle api rendo il loro frutto"
Alfredo Cattabiani - Volario -
La Rosa di Gerico
La Rosa di Gerico è considerata da tempi remoti e da popoli diversi l'unico talismano vivente.
Oggi si ritiene ancora che chi coltiva con amore una Rosa di Gerico attira su di sè l'amore, la salute, la pace e l'armonia con se stesso e con il mondo. Inoltre se, grazie alle cure che le vengono prodigate, la Rosa compie regolarmente il suo ciclo di morte e rinascita, il suo possessore otterrà, in cambio delle sue premure, creatività e abilità nel lavoro e buona fortuna negli affari.
Per saperne di più vai al link: http://www.ritrovodelfiore.it/index.php?option=com_content&view=article&id=103:la-rosa-di-gerico&catid=21:piante
giovedì 20 agosto 2009
Basilico (Ocimum basilicum)
La pianta regale: il basilico
Non si sarebbe potuto trovare un nome migliore al basilico, a questa erba degli orti elegante nella sua semplicità e dall'intenso profumo, ma anche salutare grazie alle sue proprietà antispasmodiche ( che serve a bloccare gli spasmi rilassando i muscoli ), digestive, emmenagoghe (principi attivi in grado di stimolare l'afflusso di sangue nell'area pelvica e nell'utero, e in alcuni casi, di favorirne la mestruazione) e toniche. Basilico deriva infatti, tramite il latino basilicum, dal greco basilikòs, regale. In botanica è chiamato Ocimum basilicum, dove il primo termine significa "profumo". Per questo motivo, come ricorda Carlo Lapucci, ha ispirato il simbolo della Dolcezza e l'impresa "Quo mollius, eo soavius" (quanto più delicatamente, tanto più soavemente). Un'altra impresa, "Mentis nubila pellit" (caccia l'oscurità dalla mente), è stata ispirata dalla credenza secondo la quale avrebbe la proprietà di combattere depressione e abulia.
Aldo Fabrizi dedicò alla piantina un sonetto in romanesco che merita di essere citato perchè riassume efficacemente in uno stile popolaresco le sue proprietà:
A parte che er basilico c'incanta
perchè profume mejo de le rose,
cià certe doti medicamentose
che in tanti mali so' 'na mano santa.
Abbasta 'na tisana de' sta pianta
che mar de testa, coliche ventose,
gastriti, digestioni faticose
e malattie de petto le strapianta.
Pe' via de' sti miracoli che ho detto,
io ciò 'na farmacia sur terrazzino,
aperta giorno e notte in un vasetto.
Dentro c'è 'no speziale sempre all'opera,
che nun pretenne modulo e bollino
e nun c'è mai pericolo che sciopera.
Si crede che il basilico liberi l'aria dagli spiriti maligni sicchè lo si tiene spesso sui davanzali o nei pressi della casa. Le foglie messe nell'acqua purificherebbero il corpo e la mente da malefici influssi, che si possono cacciare anche spargendole asciutte sul pavimento. La sua presenza avrebbe anche un altro effetto non dissimile secondo il codice di corrispondenze tradizionale, per il quale una pianta che allontana i demoni tiene a debita distanza anche i serpenti e scorpioni e persino zanzare. Si sostiene infatti che, posta vicino ai pomodori, respinga gli insetti. La sua presenza nelle cucine e nelle stanze da pranzo preserverebbe dagli avvelenamenti o disturbi causati da cibi cattivi, alterati o "fatturati".
In India vi è un basilico sacro detto tulasi, un'erba consacrata e identificata con Lakshmi, sposa di Vishnu, dea della bellezza, della quiete e dell'armonia, per tanti aspetti simile alla nostra Afrodite Urania. Si invoca la tulasi per proteggere tutte le parti del corpo, ma soprattutto perchè conceda figli a chi li desidera. Narada, l'Orfeo indiano patrono della musica, ha cantato le lodi di questa pianta immortale che contiene tutte le perfezioni, allontana ogni male e purifica.
La tulasi apre il cammino del cielo agli uomini pii. Per questo motivo, quando un uomo è morente, gli si pone sul petto una foglia della piantina, e dopo la morte se ne lava la testa con acqua contenente semi di lino e foglie di tulasi. Chi la pianta e religiosamente la coltiva ottiene il privilegio di salire al palazzo di Vishnu circondato da dieci milioni di parenti. Non la si può cogliere se non con pie intenzioni - pena gravissime disgrazie e un destino infelice nella vita futura - pronunciando questa preghiera: "Madre Ttulasi, tu che porti la gioia nel cuore di Govinda, io ti colgo per il culto di Narayana. Senza di te, beata, ogni opera è sterile; per questo ti colgo, dea Tulasi: siimi propizia. Poichè ti colgo con cura, sii misericordiosa verso di me, oh Tulasi, madre del mondo: te ne prego!".
A sua volta Vincenzo Maria di Santa Caterina, un religioso italiano vissuto nel XVII secolo, scriveva a proposito di un'usanza tipica del Malabar (regione situata lungo la costa della penisola indiana): "Quasi tutti, specialmente gli abitanti del Nord, adorano un'erba simile al nostro basilico gentile, che ha tuttavia un profumo più intenso. La chiamano collò, ognuno costruisce davanti alla propria casa un altarino circondato da un muricciolo, alto un mezzo braccio, in mezzo al quale alza pilastrini. Hanno una grande cura di quest'erba; di fronte ad essa sussurrano più volte al giorno le loro preghiere, prosternandosi spesso, cantando, danzando e innaffiandola. Sulle rive dei fiumi dove vanno a bagnarsi e all'entrata dei templi se ne vede una grande quantità: essi credono infatti che gli dei amino particolarmente quest'erba e che il dio Ganavedi vi dimori abitualmente. Durante i viaggi, non avendo questa pianta, la disegnano sul terreno insieme con la radice; ecco come si spiega che sulla spiaggia del mare si vedono spesso questi disegni tracciati sulla sabbia".
Il basilico, l'amore e l'amicizia
Anche in Occidente si attribuisce al basilico un simbolismo erotico che si riflette nella proprietà di favorire il concepimento, tant'è vero che una volta lo si dava come foraggio ad asine e cavalle prima della monta. In Abruzzo, nel Chietino, un giovane contadino si recava a far visita alla fidanzata portandone sull'orecchio un rametto, ma non lo regalava all'amata perchè il gesto sarebbe stato interpretato come segno di disprezzo. In Toscana lo si soprannominava "amorino": ruolo confacente, come osserva Angelo De Gubernatis, riferendo che in una novella di Gentile Sermini, un narratore senese del XV secolo, una giovane donna avverte il suo amoroso che può salire con un gesto simbolico: togliendo il vaso del basilico dal davanzale.
In Sicilia era Simbolo di Amore ricambiato, sicchè la ragazza che ne metteva da un giorno all'altro un vasetto sul davanzale voleva far sapere di essere innamorata. Ma in alcune zone quel vasetto poteva anche indicare la casa di una prostituta.
Il tema del basilico simbolicamente "mezzano" si ritrova in una novella diffusa in tutta l'Italia, e che in toscana è intitolata Il basilicone. C'era una volta una bella ragazza di nome Caterina, che ogni giorno si recava da una sarta per imparare a cucire. Avevva ricevuto l'ordine di innaffiare ogni mattina una suntuosa pianta di basilico posta sul balcone che si affacciava sulla via principale, dove passeggiava abitualmente il figlio del re. Questi finì per notare non soltanto quella pianta gigantesca ma anche la bella ragazza che l'annaffiava amorevolmente. Sicchè un giorno le rivolse la parola:
"Bella ragazza di sul balcone,
quante foglie ha il vostro basilicone?"
Caterina, intimidita, non seppe che cosa rispondere; ma siccome la scena si ripeteva ogni mattina, alla fine si consigliò con la sarta che le suggerì una risposta. Quando il principe le rivolse la solita domanda, lei disse:
"E voi, figliolo del re imperiale,
quante stelle ci sono in cielo e pesci in mare?"
Il gioco si trasformò a poco a poco in una sequenza di beffe e ripicche, finchè il principe, innamoratosi perdutamente della bella Caterina, il cui nome le si addiceva perchè le apprendiste sarte hanno come patrona la omonima santa d'Alessandria, decise di sposarla.
Il basilico non è soltanto benefico all'amore: i suoi rami fioriti posti dentro un vaso in una stanza propizierebbero l'amicizia e la concordia familiare. Questa sua funzione si riscontra anche in un'usanza siciliana, riferita dal Pitrè: la cosidetta "comare di basilico", una forma di comparatico (è un termine di origine siciliana, che indica il rapporto intercorrente fra i due compari o le due commari) fra donne e ragazze che si stringe scambiandosi vasi di questa pianticella nel giorno canonico di San Giovanni Battista.
E' insomma una pianta magica che può perdere tuttavia i suoi effetti se la si tocca o la si taglia con il ferro, come riferisce Plinio. La si deve cogliere per pratiche magiche con la mano sinistra e a luna crescente.
Un suo rametto permette infine di capire se una persona è ipocrita o bugiarda: basta, pare, metterne un ramoscello sul suo corpo mentre dorme; se il sospetto è fondato, le foglioline avvizziranno in pochissimo tempo.
Alfredo Cattabiani - Florario -
Aldo Fabrizi dedicò alla piantina un sonetto in romanesco che merita di essere citato perchè riassume efficacemente in uno stile popolaresco le sue proprietà:
A parte che er basilico c'incanta
perchè profume mejo de le rose,
cià certe doti medicamentose
che in tanti mali so' 'na mano santa.
Abbasta 'na tisana de' sta pianta
che mar de testa, coliche ventose,
gastriti, digestioni faticose
e malattie de petto le strapianta.
Pe' via de' sti miracoli che ho detto,
io ciò 'na farmacia sur terrazzino,
aperta giorno e notte in un vasetto.
Dentro c'è 'no speziale sempre all'opera,
che nun pretenne modulo e bollino
e nun c'è mai pericolo che sciopera.
Si crede che il basilico liberi l'aria dagli spiriti maligni sicchè lo si tiene spesso sui davanzali o nei pressi della casa. Le foglie messe nell'acqua purificherebbero il corpo e la mente da malefici influssi, che si possono cacciare anche spargendole asciutte sul pavimento. La sua presenza avrebbe anche un altro effetto non dissimile secondo il codice di corrispondenze tradizionale, per il quale una pianta che allontana i demoni tiene a debita distanza anche i serpenti e scorpioni e persino zanzare. Si sostiene infatti che, posta vicino ai pomodori, respinga gli insetti. La sua presenza nelle cucine e nelle stanze da pranzo preserverebbe dagli avvelenamenti o disturbi causati da cibi cattivi, alterati o "fatturati".
In India vi è un basilico sacro detto tulasi, un'erba consacrata e identificata con Lakshmi, sposa di Vishnu, dea della bellezza, della quiete e dell'armonia, per tanti aspetti simile alla nostra Afrodite Urania. Si invoca la tulasi per proteggere tutte le parti del corpo, ma soprattutto perchè conceda figli a chi li desidera. Narada, l'Orfeo indiano patrono della musica, ha cantato le lodi di questa pianta immortale che contiene tutte le perfezioni, allontana ogni male e purifica.
La tulasi apre il cammino del cielo agli uomini pii. Per questo motivo, quando un uomo è morente, gli si pone sul petto una foglia della piantina, e dopo la morte se ne lava la testa con acqua contenente semi di lino e foglie di tulasi. Chi la pianta e religiosamente la coltiva ottiene il privilegio di salire al palazzo di Vishnu circondato da dieci milioni di parenti. Non la si può cogliere se non con pie intenzioni - pena gravissime disgrazie e un destino infelice nella vita futura - pronunciando questa preghiera: "Madre Ttulasi, tu che porti la gioia nel cuore di Govinda, io ti colgo per il culto di Narayana. Senza di te, beata, ogni opera è sterile; per questo ti colgo, dea Tulasi: siimi propizia. Poichè ti colgo con cura, sii misericordiosa verso di me, oh Tulasi, madre del mondo: te ne prego!".
A sua volta Vincenzo Maria di Santa Caterina, un religioso italiano vissuto nel XVII secolo, scriveva a proposito di un'usanza tipica del Malabar (regione situata lungo la costa della penisola indiana): "Quasi tutti, specialmente gli abitanti del Nord, adorano un'erba simile al nostro basilico gentile, che ha tuttavia un profumo più intenso. La chiamano collò, ognuno costruisce davanti alla propria casa un altarino circondato da un muricciolo, alto un mezzo braccio, in mezzo al quale alza pilastrini. Hanno una grande cura di quest'erba; di fronte ad essa sussurrano più volte al giorno le loro preghiere, prosternandosi spesso, cantando, danzando e innaffiandola. Sulle rive dei fiumi dove vanno a bagnarsi e all'entrata dei templi se ne vede una grande quantità: essi credono infatti che gli dei amino particolarmente quest'erba e che il dio Ganavedi vi dimori abitualmente. Durante i viaggi, non avendo questa pianta, la disegnano sul terreno insieme con la radice; ecco come si spiega che sulla spiaggia del mare si vedono spesso questi disegni tracciati sulla sabbia".
Il basilico, l'amore e l'amicizia
Anche in Occidente si attribuisce al basilico un simbolismo erotico che si riflette nella proprietà di favorire il concepimento, tant'è vero che una volta lo si dava come foraggio ad asine e cavalle prima della monta. In Abruzzo, nel Chietino, un giovane contadino si recava a far visita alla fidanzata portandone sull'orecchio un rametto, ma non lo regalava all'amata perchè il gesto sarebbe stato interpretato come segno di disprezzo. In Toscana lo si soprannominava "amorino": ruolo confacente, come osserva Angelo De Gubernatis, riferendo che in una novella di Gentile Sermini, un narratore senese del XV secolo, una giovane donna avverte il suo amoroso che può salire con un gesto simbolico: togliendo il vaso del basilico dal davanzale.
In Sicilia era Simbolo di Amore ricambiato, sicchè la ragazza che ne metteva da un giorno all'altro un vasetto sul davanzale voleva far sapere di essere innamorata. Ma in alcune zone quel vasetto poteva anche indicare la casa di una prostituta.
Il tema del basilico simbolicamente "mezzano" si ritrova in una novella diffusa in tutta l'Italia, e che in toscana è intitolata Il basilicone. C'era una volta una bella ragazza di nome Caterina, che ogni giorno si recava da una sarta per imparare a cucire. Avevva ricevuto l'ordine di innaffiare ogni mattina una suntuosa pianta di basilico posta sul balcone che si affacciava sulla via principale, dove passeggiava abitualmente il figlio del re. Questi finì per notare non soltanto quella pianta gigantesca ma anche la bella ragazza che l'annaffiava amorevolmente. Sicchè un giorno le rivolse la parola:
"Bella ragazza di sul balcone,
quante foglie ha il vostro basilicone?"
Caterina, intimidita, non seppe che cosa rispondere; ma siccome la scena si ripeteva ogni mattina, alla fine si consigliò con la sarta che le suggerì una risposta. Quando il principe le rivolse la solita domanda, lei disse:
"E voi, figliolo del re imperiale,
quante stelle ci sono in cielo e pesci in mare?"
Il gioco si trasformò a poco a poco in una sequenza di beffe e ripicche, finchè il principe, innamoratosi perdutamente della bella Caterina, il cui nome le si addiceva perchè le apprendiste sarte hanno come patrona la omonima santa d'Alessandria, decise di sposarla.
Il basilico non è soltanto benefico all'amore: i suoi rami fioriti posti dentro un vaso in una stanza propizierebbero l'amicizia e la concordia familiare. Questa sua funzione si riscontra anche in un'usanza siciliana, riferita dal Pitrè: la cosidetta "comare di basilico", una forma di comparatico (è un termine di origine siciliana, che indica il rapporto intercorrente fra i due compari o le due commari) fra donne e ragazze che si stringe scambiandosi vasi di questa pianticella nel giorno canonico di San Giovanni Battista.
E' insomma una pianta magica che può perdere tuttavia i suoi effetti se la si tocca o la si taglia con il ferro, come riferisce Plinio. La si deve cogliere per pratiche magiche con la mano sinistra e a luna crescente.
Un suo rametto permette infine di capire se una persona è ipocrita o bugiarda: basta, pare, metterne un ramoscello sul suo corpo mentre dorme; se il sospetto è fondato, le foglioline avvizziranno in pochissimo tempo.
Alfredo Cattabiani - Florario -
Peperoncino (Capsicum annuum)
"Il rossardente diavoletto folle del peperoncino" (D'Annunzio)
(a Pescara e a Chieti viene chiamato cazzariello o lazzaretto)
Il peperoncino (Capsicum annuum) arrivò nel 1514 in Europa insieme con il più grosso Peperone del Messico, dov’erano entrambi coltivati fin dai tempi precolombiani. Secondo un mito tolteco (i toltechi erano un popolo nativo americano dell'epoca pre-colombiana che dominò gran parte del Messico centrale tra il X ed il XII secolo. La loro lingua - il nahuatl- era parlata anche dagli aztechi) il dio Tezcatlipoca apparve per la prima volta alla futura sposa, figlia del serpente piumato Quetzalcóatl, nelle sembianze di un venditore di peperoncino.
Fu adottato quasi immediatamente come spezia per insaporire le vivande. Il Mattioli nel 1568 ne parla già come di una pianta comune, chiamandolo "pepe d'India" o "pepe cornuto" o, come vogliono altri, "siliquastro". Castore Durante, dopo averlo descritto con i suoi fiori bianchi da cui escono i frutti "che son guaine simili a cornetti", ne decanta le virtù come condimento: " Si una in tutti i condimenti de i cibi perchè è di miglior gusto che il pepe commune e per farlo più piacevole si pestano le sue guaine insieme col seme e s'incorporan con pasta, e se ne fan pan biscotto, il quale accompagnato con le spetie communi le moltiplica con non ingrado sapore, e i pezzetti delle guaine fatte bollire nel brodo sono condimento eccellentissimo. Conforta molto questo pepe, risolve le ventosità, è buono per il petto e anche per coloro che sono di frigida complessione (insomma riferito a uno che non arrizza o a una che non gli va di scopare) e conforta corroborando i membri principali".
Essendo caldo e secco nel quarto grado non poteva non evocare gli Inferi solari e purificatori. Fu chiamato benevolmente "diavoletto" nel nostro Meridione, dove si diffuse rapidamente e divenne l'aroma preferito, come testimonia lo stesso D'Annunzio chiamandolo "rossardente diavoletto folle". E' detto diavulillu in Molise e nella vicina Campania, tiavulicchiu nelle Puglie, diavulicchiu in Lucania, ma anche frangisello, pupon, zafarano, mericanill, mentre a Pescara e a Chieti diventa, cazzariello, ma anche lazzaretto, e in Calabria pipariellu, pipazzu, pipi vruscente (bruciante) e cancariello.
Alfredo Cattabiani - Florario -
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